martedì 15 febbraio 2011

Il discorso del re

Colin Firth e Geoffrey Rush. Due giganti. Capaci di trasformare ogni parola, silenzio, balbettio in comunicazione pura di uno stato d'animo, di un passato, di un pensiero.

Colin Firth riesce nell'incredibile impresa di farci sentire tutti re, portandocelo alla nostra altezza quando ci appare semplicemente Bertie nel suo lato più umano e fragile, ma anche estraniandocelo in quanto prodotto di un mondo e destinato a un ruolo che ci sono completamente alieni, quando ci si presenta come re Giorgio VI (il padre di Elizabeth e Margaret).

Geoffrey Rush - nelle vesti del logopedista australiano Lionel Logue - riesce, invece, nell'altrettanto incredibile impresa di farci sentire amici di un re, ma anche inevitabilmente piccoli e insignificanti al suo cospetto.

Succede così che quando Bertie sta davanti a quel microfono, non si può fare a meno di soffrire con lui. Capiamo perfettamente quali pensieri gli attraversano la mente e quale fremito gli scuote il corpo (è per questo che mi piace quest'altra locandina che vedete qui a fianco!).
Ma quando entra con sua moglie in casa Logue, ci sentiamo piccoli e assolutamente inadeguati quanto Lionel.

Gli fanno da straordinario contorno Helena Bonham Carter, chiamata a interpretare la moglie di re Giorgio, e Guy Pearce, il fratello David, troppo desideroso di una vita normale per potersi assumere la responsabilità di guidare una nazione sull'orlo della guerra con la Germania.

Notevole anche il contributo del regista, Tom Hooper, che a volte opportunamente sceglie di chiudere le inquadrature sui volti, sulle bocche, sugli occhi dei protagonisti, in particolare re Giorgio, a volte allarga lo sguardo a descriverci gli ambienti e i contesti (belle le scene degli interni di casa Logue).

Nell'orrore di un'Europa che da poco ha superato le distruzioni della Prima guerra mondiale e si trova a dover affrontare la minaccia hitleriana e lo scoppio del secondo conflitto mondiale, vediamo il dramma di un uomo che è vittima del confronto impari con un padre re, con un fratello spavaldo e con un se stesso insicuro, dall'emotività ingessata, diviso tra il senso profondo del proprio ruolo e la compressione di personalità che gli è imposta in quanto componente della famiglia reale.

È quasi inevitabile - e per certi versi paradossale visto che parliamo di uno dei momenti più oscuri della storia europea - un moto di invidia per un mondo in cui - nonostante le debolezze umane e i piccoli giochi di potere - riconosciamo un senso alto dello stato e delle istituzioni, una dignità delle persone, una struttura formale che solleva gli animi. Non so se è la Gran Bretagna o i settant'anni che ci separano da esso.

Di fronte a film come questo - mi era successo qualcosa di simile con Milk e con Si può fare - è come se il cuore si aggrappasse a una speranza, provasse a mettere da parte un cinismo che ci è ormai connaturato, ci offrisse l'opportunità di credere in qualcosa. Lo so che la realtà è un'altra cosa. Ma, insomma, se nemmeno il cinema riesce a smuovere una passione civile e umana vuol dire che siamo davvero diventati un'umanità decadente e sterile!

Comunque, a meno che non siate cuori di pietra, la lacrimuccia finale è praticamente d'obbligo. Il discorso del re. In una parola. Maestoso.

Andatelo a vedere in lingua originale e poi ascoltate il discorso che il vero Giorgio VI tenne alla nazione. Ne sarete conquistati. Da lui e dalla grandezza di Colin Firth. Oscar subito.

Voto: 4,5/5

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