venerdì 30 marzo 2012

Colazione da Tiffany / adattamento teatrale di Samuel Adamson

Vi ricordate il famoso film del 1961 con Audrey Hepburn e George Peppard? Ebbene, prima di andare a vedere Colazione da Tiffany nell’adattamento teatrale di Samuel Adamson (lo stesso dell’adattamento teatrale della sceneggiatura di Tutto su mia madre) cercate di dimenticarlo.
Avete presente l’elegante leggerezza con cui Audrey Hepburn interpreta la protagonista Holly? Mettete da parte anche quella.

Io per fortuna non ricordavo quasi nulla del film. Avevo solo la vaga percezione dell’atmosfera propria delle commedie hollywodiane che sanno essere anche malinconiche senza però quasi mai scontentare le aspettative dello spettatore.

Il regista Piero Maccarinelli e l’intero cast, prima fra tutte Francesca Inaudi che interpreta Holly, tengono a sottolineare la distanza dal film, sottolineando invece la loro maggiore fedeltà alle intenzioni e allo spirito originario con cui Truman Capote scrisse questo breve romanzo.
La Inaudi nelle interviste relative a quest’opera dice esplicitamente di non essersi ispirata a Audrey Hepburn, bensì a Marylin Monroe, che pare fosse l’attrice che lo stesso Capote aveva in mente in vista della trasposizione cinematografica.

Fatta questa inevitabile premessa, la mia anima che ogni tanto si scopre filologica pretende a questo punto una lettura del romanzo e una visione del film, allo scopo di cogliere elementi di continuità e discontinuità tra questi diversi linguaggi e letture di cui i vari registi e interpreti hanno arricchito le diverse versioni.

Per l’intanto non posso che attenermi esclusivamente a quello che ho visto all'Eliseo (dove l'opera è in programmazione fino all'1 aprile).
Devo ammettere che ho trovato lo spettacolo eccessivamente lungo (oltre due ore); forse qualche sforbiciata in più e un approccio più sintetico e compatto avrebbero dato maggiore verve e spinta a una narrazione qualche volta faticosa.

Un plauso invece va fatto allo scenografo, Gianni Carluccio, che – lui sì – è riuscito a fare uno straordinario lavoro di sintesi di grande impatto visivo, nonché decisamente funzionale. Una strada in primo piano, su cui ogni tanto si affaccia il bancone del bar di Joe Bell. Un appartamento al piano terra (quello di Holly), uno al primo piano (quello di William Parsons), che si affacciano entrambi su una scala e un balcone a ringhiera che mette questi due appartamenti in comunicazione con quelli di due vicini, il soprano e il fotografo giapponese. Sullo sfondo lo skyline in bianco e nero di New York, tutto molto suggestivo.

La storia è semplice e molto articolata al contempo. Holly, il cui vero nome è Lula Mae, fa la prostituta d’alto bordo a New York; svampita, disinibita e sempre pronta a utilizzare tutte le armi della sua femminilità, si accompagna a uomini privi di carattere ma decisamente pieni di soldi. Quando nell’appartamento al primo piano si trasferisce a vivere il giovanissimo aspirante scrittore William Parsons (interpretato da Lorenzo Lavia), tra Holly e William si crea un rapporto e un legame del tutto particolare, che è difficile definire amore in senso stretto (anche per via dell’omosessualità latente di William) ma che certo è un reciproco riconoscimento, una connessione profonda e originale.

Intorno a Holly e William ruota un cast ricco che si compone di tutti i personaggi che a poco a poco svelano non solo la vita presente di Holly ma anche il suo misterioso passato, quello di cui lei non parla mai.

Qualcuno rileva che i personaggi sono tutti un po’ macchiettistici, e certamente per alcuni comprimari non lo si può negare (si veda il fotografo giapponese, oppure il milionario obeso, Rusty, con cui Holly si accompagna, o ancora il marito più anziano che a un certo punto ricompare nella sua vita).

Non mi sentirei invece di dire la stessa cosa delle interpretazioni relative ai personaggi di Holly e di William. È vero, entrambi sono parecchio sopra le righe, ma – oltre all’effetto teatro – trovo che questa scelta di recitazione sia assolutamente in linea con i caratteri dei loro personaggi.
Holly è il prototipo della “bionda” per scelta, ossia che è consapevole di utilizzare tutte le armi che la femminilità le mette a disposizione per esercitare un ascendente su tutti gli uomini che la circondano. Per questo, recita a vantaggio del mondo che la circonda la parte della donna superficiale, leggera, priva di pensieri, poco impegnativa e molto scenografica. La pesantezza e le ferite che si porta dentro (le paturnie come le chiama lei) cerca di sconfiggerle sempre con una risata, che però spesso non può che risultare amara, le affronta spesso fuggendo perché incapace in fondo di guardarle in faccia.

Francesca Inaudi riesce perfettamente nell’intento di comunicarci un personaggio che non può essere sinceramente simpatico, perché non è spontaneamente leggero e fresco. La messa in scena sembra infatti voler tirare fuori proprio il groviglio interiore di questa donna, ciò che da sempre cerca di far dimenticare pure a se stessa, e lo fa nel rispecchiamento con un personaggio imbranato e ingenuo come appare William.

Quest’ultimo – dal canto suo – è altrettanto artefatto, quasi finto nella sua modalità un po’ univoca di rapportarsi al mondo circostante, perché è a sua volta un personaggio la cui interiorità e identità è fortemente compressa o ancora troppo immatura per poter emergere in maniera pulita e realistica. William ama Holly perché la capisce profondamente e si sente capito, ne coglie in qualche modo il lato oscuro senza palesarlo.
E quest’incontro farà uscire anche lui dal bozzolo dell’incertezza e dell’ambiguità fino a portarlo sulla sua autentica strada di scrittore e di uomo.

Holly e William mi hanno ricordato caratteri che conosco; mentre guardavo lo spettacolo anche la leggerezza e la brillantezza di certi passaggi della sceneggiatura non mi hanno mai fatto dimenticare quel senso di irrisolto che personaggi come questi portano con sé.

Forse Samuel Adamson con il suo adattamento e Piero Maccarinelli con la sua regia avrebbero dovuto portare alle estreme conseguenze queste premesse, cioè evitare di strizzare l’occhio alla commedia brillante e divertente calcando la mano su certi personaggi e passaggi e invece sviluppare compiutamente la vena profondamente triste e drammatica che c’è in questa storia.

Mi riservo un giudizio più compiuto dopo aver letto il romanzo, ma forse se distanza doveva essere da Hollywood e dal cinema, allora doveva essere una distanza perseguita con ancora maggiore coraggio.

Un’ultima annotazione: Francesca Inaudi si conferma attrice eclettica e capace di esplorare personaggi e linguaggi differenti con ottimi risultati. Senza di lei i difetti di quest’opera teatrale sarebbero diventati probabilmente molto meno tollerabili.

Voto: 3,5/5

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