lunedì 30 luglio 2012

Anna Calvi al Circolo degli Artisti

Compro due biglietti per il concerto di Anna Calvi al Roma Vintage perché sono curiosa di ascoltare dal vivo questa cantante per la quale le lodi si sprecano e perché sono ormai alcuni anni che si tiene la manifestazione Roma Vintage ma io non sono mai riuscita ad andarci.


Sì, peccato però che da lunedì a Roma piove e martedì mattina, 24 luglio, il cielo non prometta certo bel tempo. Vado così a guardare il sito di Roma Vintage e scopro che il concerto è spostato al Circolo degli Artisti. Intendiamoci, è una location che io adoro, ma la piccola sala che ospita i concerti durante l'inverno può anche essere vagamente piacevole quando fuori ci sono 4-5 gradi, ma non quando fuori ce ne sono 30 e dentro sono stipate centinaia e centinaia di persone.

Trascino V. nella bolgia infernale del Circolo e - dopo una sambuca e un amaro - riusciamo a piazzarci in buona posizione, diciamo in seconda fila. Sono le 22 circa, ma di Anna Calvi nessuna traccia mentre la temperatura sale. Ci annunciano che c'è il concerto di apertura di Vera, la cantante dei Nidi d'Arac che sta tentando la carriera da solista. Ammirevole il coraggio e la forza di volontà, ma allo stato attuale ci sono ampi margini di miglioramento, almeno dal vivo.

A questo punto, mentre qualunque parte del corpo gronda sudore, siamo pronti all'ingresso della star, ma niente. Sono le 23. Comincio ad innervosirmi e a pensare a quello che scriverò nel mio post, che non sarà certo simpatico nei confronti della Calvi.

Quando dopo le 23 Anna Calvi sale sul palco con dei pantaloni neri dalla foggia estremamente originale, una camicia rosso fuoco, un rossetto se possibile ancora più rosso e la capigliatura bionda e boccolosa, penso che abbiamo dovuto aspettare che la cantante sistemasse i boccoli uno ad uno. Insomma, ho la sensazione che mi stia già antipatica.

Ma nel momento in cui imbraccia la sua chitarra e tira fuori le prime note e la potenza della sua voce sono costretta a ricredermi. Anzi devo riconoscere che Anna Calvi è una di quelle cantanti per le quali il live garantisce ancora uno straordinario valore aggiunto, che l'ascolto della musica registrata non rende appieno.

Anna, accompagnata da Mally Harpaz alla chitarra, armonium e percussioni e da Daniel Maiden alla batteria, crea un'atmosfera che è a metà strada - come dice V. - tra un film di David Linch e uno di Tim Burton. Anna con la sua camicetta rossa con i fiocchi è una giovane fanciulla indifesa (in realtà ha 30 anni, anche se in questi momenti sembra molto più giovane) e dalla voce esile quando si rivolge al pubblico per chiedere in un italiano stentato "Come stai?" o quando le scappa da ridere perché tutti cantano con lei il ritornello di Suzanne and I, un po' una piccola Cappuccetto rosso che si è persa nel bosco, ma quando canta Desire, The devil, I'll be your man, Morning light, si trasforma, sembra più alta sulle sue scarpe nere col tacco altissimo, il suo viso si contorce in un orgasmo quasi doloroso che è infine liberatorio, e la sua chitarra suonata in modo estremamente potente ed erotico ci trascina nel suo mondo tragico e carico di passione.

Persino la cover di Surrender acquista qualcosa di inquietante nella sua dolcezza e non può sottrarsi a quei cambi di ritmo e di tono che ad Anna Calvi sembrano piacere moltissimo. La chiusura delle sue canzoni è spiazzante, castrante, lascia assetati e satolli al contempo.

Quando saluta tutti ed esce dal palco, il pubblico - com'è ormai quasi abitudine - ne chiede il rientro ed Anna - con il suo gruppo - ci regala altre due canzoni straordinarie in un crescendo potente che finisce con un assolo virtuosistico alla chitarra sulle note di Jezebel e per un attimo mi sembra quasi di vederle spuntare dei canini troppo lunghi dalla grande bocca e accendersi una fiammella negli occhi. Ma il silenzio che segue riporta la piccola Cappuccetto Rosso in sé e il tutto si chiude con Anna che saluta con dolcezza il pubblico romano.

Qualcuno dice "la cosa migliore accaduta al rock dopo Patti Smith", qualcun altro che è la nuova P J Harvey: ovviamente toccherà aspettarla al varco del secondo album, dopo il successo straordinario ottenuto con il primo.

Certamente Anna Calvi è il migliore risultato musicale in epoca Twilight ;-)

Certo, dentro la sua musica c'è tanta tradizione musicale che io - ignorante come sono - non sono in grado di riconoscere e ricostruire. Sono però sicuramente in grado di apprezzarne la qualità e l'eccezionalità. Musicisti così non nascono tutti i giorni.

mercoledì 25 luglio 2012

Joan As Police Woman a Villa Ada

Villa Ada, 22 luglio 2012, ore 22,40 circa. Torna a Roma - e direi sempre con piacere reciproco - Joan as Police Woman. Avevo già avuto modo di ascoltarla dal vivo due anni fa al Circolo degli Artisti e avevo già raccontato di lei, chi è e da dove viene.

Dopo quel concerto ho continuato a seguirla con soddisfazione e con il suo ultimo album, The deep field, mi ha definitivamente conquistata, tanto che ho contagiato anche C. e l'ho trascinata al concerto.

Ovviamente non ci siamo fatte mancare una cenetta etnica prima del concerto a base di riso byriani con gamberetti, kofte vegetali in salsa di pomodoro con riso in bianco, taboulé e felafel con salsa di yoghurt, accompagnati da un bel bicchiere di aglianico. Né abbiamo potuto sottrarci al fascino del biliardino, dove ho mostrato ancora una volta la mia naturale propensione che ha fatto tanto arrabbiare C. ;-)

Il tempo di mangiare un dolcino arabo ed ecco Joan sul palco. Con la mia fidata Nikon D80 riesco a piazzarmi (come per il concerto di Fink) proprio sotto le transenne (del resto a Villa Ada non è così difficile) e così posso non solo godermi appieno Joan e la sua musica, ma anche scattare fotografie in libertà.


Questa volta Joan è vestita molto casual e molto estiva rispetto a come ha abituato il suo pubblico, probabilmente ha anche tagliato i capelli: pantaloni leggerissimi con una fantasia tipo "militare", una canotta nera con una stampa fucsia, un cappellino traforato piantato sulla testa. Non manca però il particolare che la caratterizza: degli scarponcini bianchi che sembrano delle scarpe da ginnastica, ma invece hanno un tacco 12 che lei mostra volentieri quando dal pubblico arriva la richiesta.

Joan è sempre accompagnata dai fidati Tyler Wood e Parker Kindred (non so se è un'impressione, ma mi pare che i loro tic si siano accentuati dall'ultima volta che li ho visti!) e soprattutto dalla sua tastiera e dalla sua chitarra.

Apre il concerto con un brano nuovo (probabilmente destinato al suo prossimo lavoro), poi seguono alcuni dei suoi più grandi successi, tra cui Magic, The ride, Real Life, Save me, Flash, To be loved, I defy, The deep field (quello che lei annuncia canticchiando "du du du, du du du du, du du du").

Durante tutto il concerto scherza con il pubblico, accorda la chitarra, beve il thè bollente dal suo thermos, esprime il piacere di stare a Villa Ada, un'ambientazione meravigliosa in una notte incredibile.

Il pubblico risponde con affetto e simpatia. C'è feeling tra Joan e questa città, che lei ringrazia in continuazione e lo fa con una straordinaria versione di quella che seconda me è la sua canzone più bella e più toccante: Forever and a year, con cui si chiude il concerto.

Eccola:



I found my dream tonight
But it's not you
You're my fantasy
I've always known
I would die alone
So here I go
I like to stay right here
Forever and a year

Don't you be scared
‘Cause I'm in it, I mean it, admit it
I'm into love

 
I've never dreamed a dream
That feels like you, romancing me
I long to hear you whisper in my ear
Come on let's go
Give in to the night
The legs of afterglow
The last leap open
I'll breathe your atmosphere
Forever and a year

Don't you be scared
‘Cause I'm in it, I mean it, admit it
I'm into love


I've been in love before
And it's been true
Both the love and me
And memory sends
Forward history
That I could go
As soon as now
So I am telling you
I love you forever
And this is always sealed
Within the deep, deep field
I like to stay right here

Forever and a year

La canta in piedi, imbracciando la sua chitarra, chiusa in un'emozione che arriva certamente al pubblico.


Ed è così che dopo essere uscita dal palco tutti la invocano a gran voce battendo le mani e i piedi a ritmo, e fischiando di soddisfazione (anch'io!) a più non posso.

Non può che tornare e dopo aver attaccato con lo scotch le parole della sua nuova canzone, ci si butta a capofitto, iniziando in maniera soft per poi procedere in un crescendo che finisce in un vero e proprio trionfo di chitarra e batteria.

Un unico appunto: magari un po’ di movimento con le luci avrebbe un po’ movimentato la scena e migliorato la resa fotografica della serata! ;-))

Mi convinco ancora una volta che Joan e la sua musica si assomigliano moltissimo: alternano una dolcezza insospettabile a una forza - e talvolta una durezza - che plasmano sia la sua espressività fisica, sia i movimenti del suo corpo, sia le note dei suoi strumenti, sia il timbro e la potenza della sua voce. In Joan e nella sua musica ci sono tante anime, tutte da scoprire.

Joan, ti aspettiamo presto di nuovo a Roma.

lunedì 23 luglio 2012

Fink a Villa Ada

Ed eccomi al mio primo concerto dell'estate romana! Villa Ada è a due passi da casa ed è un posto che mi piace moltissimo. Per questo ogni anno cerco di partecipare almeno a uno dei concerti della rassegna Villa Ada incontra il mondo.

Quest'anno ne ho in programma almeno un paio (seguirà Joan as Police Woman!), il primo dei quali è quello di Fink cui trascino anche D. che non lo ha mai nemmeno sentito nominare. Del resto pure io l'ho conosciuto assolutamente per caso, quando in mezzo alla musica passatami da C. c'erano anche un paio di suoi album.

Quando arriviamo c'è ancora tanta luce e pochissima gente. Approfittiamo per mangiare un buon kebab e bere "na biretta" ad uno dei baracchini che girano tutt'intorno all'area dedicata ai concerti, che è poi quella della penisoletta in mezzo al laghetto. Rinvigoriti dal cibo decidiamo di fare qualche partitella di biliardino (o calcio balilla che dir si voglia), ma la mia superiorità è a dir poco schiacciante ;-)

C'è ancora tempo per un dolce indiano e un lassi al self service, e poi prendiamo posto sotto il palco giusto in tempo per vedere salire Fink e la sua piccola band, formata da un batterista tutto fare (canta e suona anche la chitarra elettrica), che scopro ora chiamarsi Tim Thornton, e un bassista, Guy Whittaker.

Fink è un tipo schivo, che fa una musica difficile, porta quasi sempre un berretto e stasera c'ha una catena (vera) come collana.

Suona la chitarra e ne alterna due diverse in tutto il concerto. La sua è una musica basata a tratti sulla ripetizione e per questo un po' ipnotica, una musica che alterna squarci di melodicità e di tenerezza a sonorità quasi distoniche e spiazzanti.

Ieri sera mentre lo ascoltavo e facevo le foto pensavo che alcune caratteristiche della sua musica e della sua voce mi fanno un po' pensare ai canti degli schiavi nelle piantagioni, conditi con un po' di elettronica. Non a caso l'ascolto di Fink mi ha ricordato un altro bel concerto di qualche anno fa, quello di Piers Faccini all'auditorium (per un confronto si ascolti questo pezzo: http://www.youtube.com/watch?v=iB1cd-lZA2M).

Certo in Fink - almeno nel concerto di ieri sera - c'era molta ricchezza di suoni e nell'ultima canzone si è divertito moltissimo con i suoi pedali sul palco a costruire e improvvisare musica sempre più coinvolgente, quella che lui stesso ha definito "some noise". A quel punto è stato inevitabile che il pubblico - non numerosissimo ma piuttosto caloroso (c'era in prima fila un ragazzo quasi rapito che conosceva a memoria tutte le canzoni!) - chiedesse al trio di tornare sul palco per un'ultima canzone.

Non è tardissimo (anche se domani tocca andare a lavorare!) e dunque c'è tempo per una rivincita al biliardino, che però - nonostante il maggior equilibrio in campo - non arriverà! ;-)

Per chi avesse curiosità di capire com'è fatta la musica di Fink ecco due delle mie canzoni preferite:


mercoledì 18 luglio 2012

La Borgogna del Sud in bicicletta (II parte)

Dopo le prime tappe attraverso i vigneti a perdita d'occhio, si riparte alla volta di Cluny! Il primo tratto è abbastanza collinare e la cosa ci spaventa visto che quella di oggi è una delle tappe più lunghe (quasi 70 km), ma dopo i primi 25 km eccoci sulla Voie Verte, la pista ciclabile che i francesi hanno realizzato prevalentemente su linee ferroviarie dismesse (dopo la nascita del TGV) e di cui hanno conservato le stazioni. La passeggiata (quasi tutta in piano) è molto rilassante e scenografica, e lungo il percorso verdissimo non mancano castelli, mucche, cavalli, palazzotti e quant'altro.


Una delle biciclette con cui viaggiamo richiede manutenzione e così quando arriviamo a Cluny andiamo alla ricerca di un riparatore di bici. Peccato che gli orari di apertura qui siano piuttosto imprevedibili! Alla fine un meccanico gentile ha la brugola adatta a stringere il perno del pedale. A dire la verità, al nostro hotel troveremo due rappresentanti di France à velo, l'agenzia francese a cui si è appoggiata quella italiana per il nostro viaggio, e dunque tutti i perni verranno stretti a dovere.

L'hotel sta un po' fuori del centro, in un angolo un po' trafficato, per fortuna le camere danno nell'interno e il ristorante sta su una terrazza che si affaccia sul fiume. Ma prima di cena ci aspetta una passeggiata per Cluny, dove intanto saliamo sulla Tour des fromages, da cui si gode una splendida vista sulla cittadina e sulle colline circostanti (cosa che già ci preoccupa per la tappa del giorno dopo!).

Dopo l'ottima cena riscaldati dal sole del tramonto (qui il sole tramonta dopo le 21), il sonno ristoratore ci prepara alla tappa più difficile del viaggio, ma prima di partire non possiamo saltare una visita all'abbazia di Cluny di cui di fatto resta solo una piccola parte, essendo stata distrutta in buona parte dopo la rivoluzione francese. Ma anche in questo caso i francesi hanno saputo fare dei resti di un'abbazia qualcosa di affascinante e per cui valga la pena pagare un biglietto.

Si parte. Ed effettivamente nei meno di 40 km di oggi, affronteremo tre lunghe salite (di 2-3 km ciascuna), la prima delle quali ci constringerà a scendere e spingere la bicicletta. Non è che saliamo sui monti (o meglio un po' sì), il fatto è che dopo 3 km di salita si scende a capofitto e velocissimi giù per la collina e dunque siamo al punto di partenza
:-(

Però, sono soddisfatta di me. Mi lamento poco e tutto sommato ce la faccio. La piscina degli ultimi 10 mesi qualcosa deve proprio aver fatto!

Al termine di questa tappa ci attende Tournus, paese adagiato sulla sponda della Saona, una strana via di mezzo tra un paese di mare (con le stradine assolate) e una paesino medievale, la cui abbazia è ancora perfettamente intatta con il suo chiostro, i suoi mosaici, la sua cripta e la torre campanaria di pietra rosa.

Aperitivo e cena al nostro grazioso hotel, dove possiamo cenare nel dehors che dà su una bella piazza del paese.

Si riparte alla volta di Chalon-sur-Saône. Oggi il percorso è tutto abbastanza in piano e pedaliamo prevalentemente nella splendida campagna francese tinteggiata dal giallo delle graminacee, dal rosso dei papaveri e dall'azzurro dei fiordalisi.

Chalon si presenta all'arrivo come una cittadina quasi industriale. Tra l'altro siamo alloggiati in un albergo high-tech vicino la stazione, per cui ci facciamo l'idea che si tratti di una città senza grandi attrattive. Ma una passeggiata sotto la calura pomeridiana ci farà scoprire un piccolo ma grazioso centro storico, con una piazza dominata dalle case con le armature di legno e una bella cattedrale.

La cena è buona e poco impegnativa visto che il menu è fisso e dunque non si consuma il rito della scelta.

Il giorno dopo si riparte per Beaune. Ci attende un nuovo pezzo della Voie Verte, che questa volta costeggia un canale costruito nell'Ottocento per collegare i fiumi francesi Loira e Saona, e dunque creare vie navigabili interne. Assistiamo e documentiamo fotograficamente il meccanismo con cui le barche che navigano lungo il canale grazie alle chiuse superano i dislivelli e - seppure con lentezza - raggiungono infine il fiume. All'altezza di Santenay lasciamo la pista ciclabile e si riprende la Voie des vignes che avevamo percorso nella nostra seconda tappa. Questa volta però il cielo è sgombro, il sole è a picco e vediamo le vigne e i loro lavoratori in tutto il loro splendore. Fa molto caldo ma non siamo lontani dalla nostra destinazione.

A Beaune ci fermiamo a prendere un'anisetta e un kir e a comprare il vino al negozio di Moillard, per poi caricare le bici su un trenino regionale (le bici viaggiano gratuitamente) e tornare a Dijon. La nostra pedalata è finita.

La sera siamo di nuovo a cena nel nostro primo ristorante e il giorno dopo è dedicato allo shopping: la moutarde de Dijon, il caffè lungo francese (che - come forse si sa - adoro), regalini e così via.

Io e S. restiamo a Dijon una notte in più, in un graziosissimo hotel vicino l'Eglise Saint-Michel, Le Chambellan, così il giorno dopo - brutto tempo e freschino - vediamo tutti i possibili musei gratuiti della città: il Musée des Beaux Arts (che è in ristrutturazione e dunque la visita in questo periodo è gratis) e poi il Musée de la Vie Bourguignonne Perrin de Puycousin, un tipo di museo che a me piace molto, perché poco impegnativo e divertente e perché è una specie di tuffo in un tempo che non c'è più.

Ma eccoci alla fine della nostra vacanza. Un'altra cuccetta strapiena ci attende e soprattutto un'Italia che sta attraversando il suo picco di afa estiva. E dire che arriviamo dai 15 gradi dell'ultima giornata in Borgogna!

lunedì 16 luglio 2012

L'ultimo terrestre

In una serata molto radical-chic e super-vip all'Arena del Nuovo Sacher, circondata da attori e gente del mondo del cinema più o meno conosciuta, vado a vedere l'opera prima di Gian Alfonso Pacinotti (Gipi), preceduta dalla lettura delle "recinzioni" di Johnny Palomba ad opera dello stesso Palomba e di Nanni Moretti, che sembra divertirsi molto a fare il romanaccio coatto recensore di film.
Di Gipi conosco il lato più conosciuto, quello di creatore di storie a fumetti. Ho letto molte delle sue storie e ne apprezzo lo stile che sa essere ruvido e tenero allo stesso tempo. Ero dunque curiosa di capire come la sua sensibilità si sarebbe espressa sullo schermo in un lungometraggio.

Ebbene, L'ultimo terrestre ha moltissimo del Gipi fumettista. Innanzitutto, il suo protagonista Luca, che sia nei tratti fisici (è interpretato da Gabriele Spinelli) sia nella cifra emotiva, è molto vicino ad alcuni personaggi dei graphic novels dell'artista pisano. Lo stesso vale per le ambientazioni: Luca vive in un complesso immobiliare senza anima, al cui ingresso campeggia un cartellone pubblicitario di dimensioni abnormi (di cui non rivelerò il contenuto per non togliere l'effetto sorpresa), lavora in una sala bingo, gira per le strade battute da trans e prostitute, incontra una prostituta in quello che sembra un mercatone del mobile la cui insegna è una foto della "famiglia felice". Luoghi che potrebbero essere ovunque, ovvero spaventosi spazi onirici.

La poetica di Gipi affiora continuamente anche nei temi: il rapporto difficile con il padre, i delicati equilibri e le mezze verità della famiglia, l'attrazione/repulsione per la crudeltà del mondo, la relazione con il diverso, la difficoltà dei sentimenti, il doloroso percorso della crescita.

Non si può dire che Gipi sia un allegrone: i suoi graphic novels sono spesso dei pugni nello stomaco, a cui però il tratto disegnato riesce a conferire un sapore agrodolce e un tono grottesco che almeno in parte mitigano l'intensità del colpo.

Ne L'ultimo terrestre - pur nel fumettismo conferito dal regista all'opera cinematografica - l'effetto risulta a tratti talmente depressivo ovvero inquietante che probabilmente lo stesso Gipi ha sentito la necessità di un riscatto, di un colpo di coda che sollevasse il protagonista dalla brutalità e dalla bruttezza del mondo. E così se il proprio padre è inaffidabile e bugiardo, se l'amicizia con un trans è difficile da sostenere socialmente, se la vicina di casa di cui Luca è segretamente innamorato non rappresenta una via di fuga affidabile, non restano che gli alieni.

Solo esseri non umani sono in grado di distinguere tra bene e male e possono travolgere l'ottundimento della coscienza collettiva in un finale catartico e in qualche modo sinistramente pieno di speranza.

Voto: 3/5

venerdì 13 luglio 2012

La Borgogna del Sud in bicicletta (I parte)


Ho perso il conto di quanti viaggi in bicicletta ho fatto, e l'ho perso anche di quanti ne ho fatti in Francia. Eppure in Francia torno sempre volentieri per la bellezza del paesaggio, la bontà del cibo, la qualità del bere e - perché no - anche per la gente.

Era da un po' che volevamo tentare il viaggio in Borgogna ma ci aveva sempre spaventato la difficoltà di pedalare su e giù per le colline e dunque attendevamo un viaggio che prevedesse un percorso più semplice. Finalmente quest'anno lo troviamo, offerto da un una nuova agenzia specializzata in viaggi in bicicletta, Funactive.

Sì, peccato che a Funactive non abbiano ancora oliato le procedure e dunque, nonostante il pagamento dell'anticipo, non abbiano immediatamente proceduto alla conferma della prenotazione, cosicché poche settimane prima della partenza ci comunicano che non c'è più posto per il viaggio che abbiamo scelto nella data per la quale noi abbiamo già prenotato tutti i treni. Vi lascio immaginare la mia telefonata con la responsabile...

Poche ore dopo ci propongono un altro viaggio in Borgogna del Sud con un giro leggermente diverso. Chiedo se è anch'esso classificato come "facile". Ci rispondono che è facile, tranne una salita nella tappa dopo Cluny. E vabbè...

Dopo la solita nottata in cuccetta da sei sovraffollata (e quest'anno in partenza da Venezia), arriviamo a Dijon sabato mattina e prendiamo subito confidenza con la città e con i suoi gufetti. Poiché su uno spigolo della chiesa di Nôtre-Dame
c'è scolpito un gufo (ma anche un piccolo dragone), che bisogna toccare tre volta con la mano sinistra perché porti fortuna, questo animale è stato adottato come mascotte della città. E così anche i percorsi turistici sono indicati mediante placchette dorate incastonate nelle strade e nei marciapiedi che portano inciso un gufetto in pausa o svolazzante.

Dijon è il capoluogo della Borgogna ed è la tipica cittadina francese di medie dimensioni e di buona vitalità. Di bellezze storico-artistiche da visitare ce ne sono numerose, personalmente preferisco girare in lungo e in largo Les Halles, il mercato coperto con i suoi colori, le voci e le merci disposte in maniera quasi artistica. Qui inizia anche il nostro tour enogastronomico e la nostra degustazione di formaggi di capra di ogni forma, dimensione e stagionatura.

Nel pomeriggio ci vengono consegnati il materiale informativo e le biciclette. La prima cena al Restaurant de la Porte Guillame a Place Darcy ci fa subito capire che il livello enogastronomico del nostro viaggio sarà probabilmente molto e anche la raffinatezza dei posti designati per la nostra "mezza pensione".

La mattina dopo si parte. Prima tappa: Dijon-Beaune. È chiaro fin da subito che, oltre alle chiesette romaniche, ai lavatoi e ai paesini, saranno le vigne a perdita d'occhio il nostro principale compagno di viaggio e così pure le numerosissime cantine disseminate su tutto questo territorio. Questa mattina ci aspetta anche una degustazione presso la cantina Moillard nella zona di Givry. Qui visitiamo il seminterrato dove le grandi botti fanno il loro lavoro e poi ci fanno assaggiare due bianchi (interessanti) e tre rossi di struttura crescente (per quanto i vini di Borgogna non siano particolarmente strutturati), di cui due 1er Cru (il più alto riconoscimento di qualità per un vino francese). Uno dei rossi, il Vosne-Romanée lo compreremo al nostro ritorno ripassando per Beaune (ora è a casa in attesa che una bella serata mi permetta di verificare se è arrivato in buone condizioni).

Questa prima tappa è divertente e non particolarmente impegnativa. Arriviamo a Beaune in scioltezza, anche se una delle compagne di viaggio ha sviluppato una specie di bronchite e dunque, arrivata a Beaune, trascorrerà 3 ore al pronto soccorso dell'ospedale per avere una prescrizione.

Il nostro albergo di Beaune è un po' fuori dal centro, una specie di casa padronale ristrutturata, con mobili di antiquariato, oggetti vintage e un gestore molto simpatico accompagnato da un cagnone enorme. La cena è in un ristorante dall'altra parte del centro storico, così abbiamo la possibilità di dare una prima occhiata a questa cittadina ricca di storia e presa d'assalto da turisti soprattutto inglesi e americani innamorati dell'Europa e soprattutto del suo vino. Il mattino seguente visitiamo i monumenti più interessanti di Beaune, in particolare l'Hotel Dieu, di cui la ricchissima audioguida gratuita (compresa nel prezzo di ingresso) ci spiega storia, curiosità, vicende e dettagli di ogni genere. Nel frattempo il tempo è grigio e quando siamo all'ingresso della nostra pista ciclabile "Veloroute la voie de vignes" sta piovendo. A parte il fastidio di pedalare per una mezz'oretta sotto la pioggia, in realtà la campagna è molto affascinante e misteriosa nella bruma e - a posteriori - sono molto contenta di averla vista anche in questa luce.

Attraversiamo i paesi che danno i nomi ai grandi vini della Cote de Beaune (Pommard, Nuits Saint George, Saint-Romain ecc.) per arrivare in fine - dopo una salita che nessuno di noi si aspettava - nel piccolo paese di Chassey-Le-Camp, dove ci attende un bellissimo Logis (straordinaria istituzione francese!) con piscina coperta. Non ci facciamo mancare una piccola scarpinata a piedi per visitare il parco archeologico (dei resti del neolitico quasi non se ne vede traccia, in compenso però c'è una bellissima vista su due valli), ma poi arrivano una bella nuotata e la Jacuzzi.

La cena è di altissimo livello (mangiamo tra le altre cose confit de canard e mignon de porc col sesamo, beviamo per la prima e unica volta nella nostra vacanza un 1er Cru da più di 30 euro), e il cameriere ci confesserà a posteriori di avere origini pugliesi e di ricordare le cene a base di pesce crudo! :-)

Alla prossima puntata!!

mercoledì 11 luglio 2012

Scialla! (Stai sereno)

Grazie a un gelato rimandato e all'iniziativa di M. finalmente riesco ad andare a vedere Scialla! (Stai sereno) che mi ero persa durante la stagione cinematografica appena trascorsa. E del resto a questo servono le arene, pur con tutti i loro difetti, per esempio un audio non proprio straordinario e delle zaffate insopportabili provenienti dai giardinetti di piazza Vittorio.

Ne avevo sentito parlare bene, come di un piccolo miracolo, considerato che un tema come quello trattato messo in mano a un italiano poteva diventare - nell'ordine - banale, stupido o lacrimevole.

Scialla è la storia di Luca (Filippo Scicchitano), un ragazzo romano di 16 anni, che vive da solo con la madre e frequenta la scuola con scarsi risultati, e di Bruno (Fabrizio Bentivoglio), che ha smesso di insegnare inseguendo il sogno di scrivere, ma ha finito per pubblicare solo biografie di personaggi famosi e per vivere da solo nella sua grande casa.

Quando la madre di Luca parte per un periodo di lavoro all'estero, Luca viene affidato a Bruno che scopre solo allora di esserne il padre. E questo rapporto padre-figlio troverà faticosamente una strada nella ricerca di un'identità che in qualche modo accomuna Luca, che si sta affacciando alla vita e lo fa nel modo un po' sbruffone, ma simpatico, degli adolescenti, e Bruno, che ha rinunciato a dare un senso all'esistenza e perso qualunque motivazione.

Bruno, con il suo buffo accento padovano, è un personaggio un po' dolente. Uno sconfitto, un perdente a priori, perché ha rinunciato ad affrontare la vita. Luca sprizza vitalità ed energia da tutti i pori; è un vulcano, una valanga che travolge tutto quello che incontra con quell'impulsività tipica dell'adolescenza che porta a sperimentare senza pienamente riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni.

Filippo Scicchitano è molto credibile come sedicenne romano sempre in vena di scherzi e di battute e sempre pronto alla rissa. E in fondo è credibile come sedicenne in generale tutte le volte che la mattina bisogna sparare le cannonate per tirarlo giù dal letto, quando va in giro per la casa con indosso solo i boxer attillati, mentre gira per i corridoi della scuola con le cuffie nelle orecchie e la musica a tutto volume. E fa tenerezza quando sotto l'aria da duro dimostra una tenerezza ancora da cucciolo.

Luca e Bruno si incontreranno in un punto apparentemente inesistente e certamente invisibile agli occhi degli altri, quello in cui un padre e un figlio agli antipodi riescono in qualche modo a riconoscersi.

Durante la visione del film si ride molto e il cuore sta "scialla" perché guardiamo una bella storia. Certo, il buonismo è dietro l'angolo e tutto è molto politically correct e un po' semplificato, però i sentimenti sono veri e lo sguardo si fa inevitabilmente compiacente di fronte a questa generazione e a questa età della vita che è bella perché contiene tutto quello che potrà essere e terribile perché ancora non è nulla.

Grazie a Francesco Bruni per avercene parlato con tale sincerità.

Voto: 3,5/5

lunedì 9 luglio 2012

Appunti per una storia di guerra / Gipi



Appunti per una storia di guerra / Gipi. Milano: Rizzoli, 2006.

Avevo già letto diverse cose di Gipi ed ero rimasta colpita dal modo in cui i suoi racconti spogli e senza infiocchetta menti sanno arrivare dritti al cuore.

E dunque posso immaginare che anche la giuria del Festival internazionale del fumetto di Angoulême sia stata conquistata da quell’originale mix di durezza e tenerezza che il fumettista pisano infonde nelle sue storie.

Gipi è un autore spigoloso, innanzitutto nel tratto grafico che – anche quando utilizza la tecnica dell’acquerello – non nasconde i tratti duri dei paesaggi e dei personaggi; in secondo luogo nelle storie che racconta.

Il fatto è che c’è sempre qualcosa di autobiografico in quello di cui Gipi disegna e così in Appunti per una storia di guerra - prima ancora che venga esplicitato alla fine dell’albo – sappiamo che Giuliano è lui stesso, il diverso, quello che viene da una famiglia ricca, quello che ha le mani sottili e che non potrà mai essere veramente un duro.

Questo albo, che è il primo graphic novel dell’autore e quello con cui nel 2006 ha vinto – come ricordavo – ad Angoulême, è la storia di tre adolescenti, Stefano, detto il killerino, Christian l’ingenuo e appunto Giuliano, e di una guerra senza nome di cui si riconosce la presenza senza che mai la si possa vedere.

È la storia di quanto forte da ragazzi sia il bisogno di essere accettati, la necessità di somigliare ai più forti, la possibilità di dimostrare di non avere paura di niente.

È la storia di come su questo terreno il mondo degli adulti può agire a proprio uso e consumo per instillare un sentimento di odio vero verso il mondo, di cameratismo e di attrazione verso la guerra reale.

Quella dei tre ragazzi è infatti prima una guerra personale per la sopravvivenza, poi diventa una scelta di vita per bisogno individuale o fedeltà all’amicizia. E così la guerra personale e quella che si svolge sullo sfondo - e che fino a un momento prima non gli apparteneva - diventano un tutt’uno, si fondono in un insieme inestricabile che solo Giuliano riesce a sfuggire, senza del resto essere davvero in grado di superare la vergogna e il senso di colpa per averlo fatto.

Gipi non ricama sui personaggi, né sulle storie; non fa l’intellettuale ad ogni costo. Anzi piuttosto è un uomo di pancia, con la semplicità e la ruvidezza di un approccio originariamente “popolare”. Sarebbe dunque fargli un torto tentare di analizzare questo graphic novel al di là dei confini che l’autore stesso traccia.

È certo però che Gipi ci mostra i contorni di un possibile e terribile mondo futuro (e forse in parte già presente) in cui la debolezza della struttura sociale, le crescenti disparità, i miti del consumismo finiscano per creare un vuoto difficilmente colmabile e possano confluire nella sinistra attrazione per la guerra.

Gipi sembra volerci ricordare che qualunque guerra ci appartiene perché la guerra è prima di tutto dentro di noi.

Voto: 3,5/5

martedì 3 luglio 2012

La simmetria dei desideri / Eshkol Nevo

La simmetria dei desideri / Eshkol Nevo; trad. di Raffaella Scardi e Ofra Bannet. Milano: Neri Pozza, 2010.

Era tantissimo tempo che G. mi aveva entusiasticamente prestato questo libro suggerendomi di leggerlo, ma il libro era rimasto lì, nella libreria della vecchia casa, pazientemente in attesa prima di trovare collocazione negli scaffali della nuova.

Mi capita spesso così con i libri, come con tutti gli aspetti emotivi della mia esistenza. A volte non è il momento, e comunque non posso decidere io quando. Finché a un certo punto qualcosa mi spinge nella direzione della storia raccontata in quel libro. Non sempre è amore a prima vista, non sempre scocca la scintilla, ma a volte quello è proprio il momento giusto per tentare un contatto.

E così è andata con La simmetria dei desideri del giovane scrittore israeliano Eshkol Nevo. Il libro mi ha conquistato a poco a poco e via via che andavo avanti nella lettura la spinta propulsiva a continuare a leggere è diventata sempre più forte.

La storia è piuttosto semplice: è quella di quattro amici appassionati di calcio che alla finale di un mondiale decidono di scrivere su un bigliettino i loro desideri, quelli che sperano possano avverarsi entro il successivo mondiale, ossia entro quattro anni. Si tratta dei quattro anni decisivi nella vita di ciascuno, quelli durante i quali si abbandona per sempre l’adolescenza e ci si trova immersi – a volte proprio malgrado – nella vita adulta, gli anni durante i quali le amicizie della propria giovinezza vengono messe a dura prova dalle fatiche e dagli inaspettati, eppure inevitabili, dolori dell’esistenza.

A raccontare la storia della loro amicizia e delle loro vite è uno di loro, che nelle vite degli altri è stato immerso profondamente, in un intreccio inestricabile che è anche quello che dà il titolo al romanzo.

La narrazione è decisamente declinata al maschile, ed anche profondamente radicata nel contesto storico-politico del tutto particolare nel quale questi quattro amici vivono. Originari di Giaffa, le loro vite ruotano prevalentemente intorno alla città di Tel Aviv, dove gli echi del conflitto tra israeliani e palestinesi arrivano molto attutiti, al punto tale che a volte si può far finta di niente e pensare che le terribili notizie che giungono ogni giorno non gli appartengano.

Nonostante la forte connotazione culturale e personale che caratterizza questo racconto la sensazione dell’universalità dei sentimenti è tangibile e – di tanto in tanto – apre degli squarci di verità emotiva talmente intensi a cui è impossibile rimanere indifferenti. A volte si può toccare con mano la assoluta trasversalità di pensieri, emozioni e sentimenti, quelli in cui ci si riconosce anche a distanze geografiche, culturali, sociali, personali di tutto rilievo.

Questo riconoscimento tra lettore e scrittore, questa conversazione muta, filtrata attraverso le tangenti imprevedibili del vissuto e delle esperienze personali costituiscono forse il dato più sorprendente della lettura. E in questo romanzo portano con sé un carico di verità particolarmente denso.

Devo confessare un iniziale pregiudizio nei confronti della narrativa ebraica, troppo spesso incastrata nelle pieghe della sua propria drammatica storia, incapace di guardare alla contemporaneità senza i condizionamenti di questo passato così ingombrante, a volte troppo militante dal punto di vista religioso e politico, autoreferenziale e monodimensionale nella sua interpretazione della realtà. E tutto questo mi tiene francamente piuttosto a distanza da molta parte della letteratura ebraica.

Eshkol Nevo mi ha però dimostrato che esiste anche un’altra faccia di questa narrativa, ed è quella di una generazione di ebrei che ha preso le distanze non solo dai condizionamenti religiosi, bensì anche dall’inevitabile dimensione collettiva che gli ebrei sembrano non poter fare a meno di attribuire anche alle azioni personali.

I quattro amici di questo romanzo sono quattro individui la cui unica dimensione collettiva è quella dell’amicizia che li unisce e che in qualche modo travalica anche le scelte personali. Questa dimensione non si configura come indifferenza nei confronti di quanto accade nel mondo circostante, anzi in qualche modo ne fa emergere per contrasto l’assurdità, e si traduce in una critica quasi implicita – cioè poco politica e dunque poco urlata – dell’incapacità di mettere fine al dramma che si consuma ogni giorno in questi territori.

A volte penso che esiste una speranza. E che molte cose cambierebbero se riuscissimo a mettere insieme le nostre speranze individuali. Anche nelle situazioni più complicate.

Voto: 3,5/5