domenica 9 novembre 2014

Boyhood

Boyhood racconta la storia di Mason (Ellar Coltrane) dal 2002 (quando ha sei anni) al 2013 (quando ne ha 18) e lo fa utilizzando lo stesso gruppo di attori per dodici anni, supportato da poche riprese con cui la macchina da presa diventa testimone vera del tempo che passa, per il giovane protagonista, che da bambino diventa quasi adulto, e per i genitori (i bravissimi Patricia Arquette e Ethan Hawke) che invecchiano e si imbolsiscono.

In Boyhood non si vuole comunicare nessuna verità universale, non ci sono morali, non ci sono neppure eventi eclatanti. Quelle di Mason sono un'infanzia e un'adolescenza come quelle di molti altri ragazzi americani (e non solo) tra il 2002 e il 2013. Il rapporto con i genitori divorziati, in particolare con una madre forte e determinata che però spesso si accompagna agli uomini sbagliati, e un padre che sembra non voler crescere mai; i numerosi traslochi, le nuove amicizie, la necessità di adattarsi a situazioni diverse; il confronto con la sorella più grande (Lorelei Linklater, la figlia del regista); i giochi, i successi, gli insuccessi, i primi amori, le piccole passioni, l'apatia, le delusioni, la preoccupazione del futuro; i compleanni, le feste, i fine settimana dai nonni.

La vita scorre sullo schermo, punteggiata da una sceneggiatura ridondante ed essenziale al contempo.

Due passaggi di questa sceneggiatura mi hanno colpita in modo particolare.

In una conversazione tra Mason e la sua ragazza del liceo, Sheena, quest'ultima fa riferimento al detto "Cogli l'attimo" e commenta che ha invece la sensazione che nella vita sia l'attimo a cogliere noi.

La madre di Mason - quando quest'ultimo, che è il suo figlio più piccolo, sta per lasciare casa per andare al college - ha una crisi di pianto e dice che - guardando indietro ai tanti obiettivi che ha inseguito e ai tanti sacrifici che ha fatto per realizzarli - si sarebbe aspettata altro, e invece in fondo nella vita non c'è molto più di questo.


E tutto questo mentre sullo sfondo passa la storia americana di quegli anni (il post 11 settembre, la guerra in Iraq, le elezioni presidenziali in cui si contrapposero McCain e Obama) e il mondo cambia (i videogiochi diventano sempre più sofisticati, compaiono i primi cellulari, poi è la volta degli smartphone, quindi la pervasività dei social networks); a supporto del tutto scorre la colonna sonora di quegli anni (a partire da Yellow dei Coldplay con cui si apre il film e che non avrei mai detto che fosse dei primi anni Duemila! Come passa il tempo!). E il bello è che tutto questo non è ricostruito attraverso la memoria e riprodotto sullo schermo a posteriori, bensì è perfettamente contemporaneo al girato, cosicché il punto di discrimine tra il documentario e la ricostruzione cinematografica è imprevedibile.

Quello di Richard Linklater è un esperimento cinematografico originale e coraggioso, che in qualche modo indaga il confine tra realtà e finzione e lo assottiglia ancora di più, rendendolo permeabile e facendo transitare pezzi dell'uno nell'altra (ad esempio, la compilation The black Beatles che il padre regala a Mason è effettivamente un regalo che Ethan Hawke aveva preparato per la figlia).

A mio modesto modo di vedere, l'orizzonte futuro del cinema si sostanzierà di rapporti sempre più originali tra il cinema di finzione e il documentario.

Di fronte a questo spazio fluido che Linklater ci mette davanti ognuno può trovare il proprio posto, agganciare i propri ricordi, cogliere i propri significati, soffermarsi su quello cui è sensibile, con il risultato che anche agli occhi degli spettatori si produce un mosaico scomposto e sfaccettato. Esattamente come la vita.

Voto: 3,5/5


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