domenica 7 giugno 2015

Micah P. Hinson (+ Ned Roberts), Roma, Chiesa evangelica metodista, Unplugged in Monti, Church session, 25 maggio 2015


Fino a qualche mese fa non avevo mai nemmeno sentito il nome di Micah P. Hinson. Poi l'allegra brigata di Unplugged in Monti decide di organizzare una Church session che lo vede protagonista e la data del 22 maggio va immediatamente sold out, tanto che quasi immediatamente si decide di replicare per lunedì 25 maggio.

Mi incuriosisco e andando un po' in giro per la rete capisco che Micah P. Hinson si porta dietro l'aura del cantante maledetto e dallo straordinario talento e che è considerato il vero erede del cantautorato americano. Così compro i suoi dischi più recenti Micah P. Hinson and the Nothing e Micah P. Hinson and the Gospel Progress. Il primo ascolto è bello e devastante: quelli successivi mi strappano il cuore. E quindi mi assicuro un biglietto per la serata del 25 maggio.

Arrivo alla Chiesa Evangelica Metodista con non troppo anticipo e così la mia postazione non è delle migliori, però sono già lì con la macchina fotografica in pugno per fare il mio solito reportage.

Puntualissimo sale sul palco Ned Roberts a cui è stata affidata l'apertura del concerto. Si tratta di un ragazzo giovanissimo, dalla corporatura esile, gli occhi chiari e i modi gentili. Ci dà un assaggio del suo "omonimo" ultimo disco, oltre a farci ascoltare qualche altra canzone del suo repertorio e una cover di Bob Dylan (per la quale si giustifica dal principio nel caso dovesse interrompersi perché non ricorda le parole, ma non accade...). Musica folk di grande suggestione che crea perfettamente l'atmosfera per il concerto a seguire.

Dopo una breve pausa, ecco arrivare Micah P. Hinson che cammina appoggiato a un bastone (esito del terribile incidente stradale in cui è stato coinvolto nel 2011 durante un tour in Spagna) ed è vestito in maniera davvero improbabile (una salopette color ocra, due misure più grande del necessario, una camicina a quadretti e un maglioncino di lana, poi il solito cappellino in testa). Ci dice nel suo americano, in cui ogni 2-3 parole viene infilato un "fuck" o un "fucking", che lui si chiama Micah Paul Hinson, che è nato in Tennessee, è cresciuto in Texas, possiede una casa in Texas e lì morirà a meno che qualcuno non lo trascini via con la forza. Poi, con i suoi movimenti buffi e un po' scoordinati, apre il suo taccuino e ci dice che - come da contratto - ci suonerà l'album Micah P. Hinson and the Gospel Progress.

Imbraccia la chitarra (quella elettrica al principio) e comincia a cantare le sue canzoni. La cosa impressionante è che le sue scelte di interpretazione - sia nell'arrangiamento alla chitarra sia nella voce - sono del tutto originali, al punto tale che - pur avendo ascoltato a lungo il suo album - in alcuni casi non riesco neppure a capire qual è la canzone che sta cantando. A un certo punto chiama sul palco una donna con un vestitino bianco e un grande pancione che gli farà da controcanto in un duetto da cui sprigiona tanto tanto amore. Ci dirà dopo che lei è sua moglie, Ashley Bryn Gregory, e che - come possiamo vedere tutti - è incinta, "fuck" tutti i medici che dicevano che non potevano avere figli. E che a questo punto gli toccherà crescere in fretta, a lui che è ancora un bambino, ma forse va anche bene così perché - rispetto a tanti genitori non empatici con i loro figli - forse lui potrà invece mettersi sul suo stesso piano e comprenderlo profondamente. Si vede che è felice, nonostante quella nota cinica e tormentata che la sua vita disperata gli ha messo nella voce e nelle canzoni.

Si susseguono canzoni in parte suonate con una bianchissima e splendente chitarra elettrica (una Airline), in parte suonate con una vecchia chitarra acustica su cui campeggiano numerosi adesivi tra cui uno che recita "This machine kills fascists", un omaggio a Woody Guthrie che è il capostipite dei cantautori americani, e un altro che dice "F*ck you, I'm Batman". Si toglie il maglioncino, si solleva le maniche della giacca, e sulle braccia fanno bella mostra di sé una serie di tatuaggi che creano un effetto quasi distonico con l'abbigliamento di Micah, il tutto con una lentezza e una precisione incredibili. Micah è fatto così.

La sua musica disperata, la sua voce potente, la sua chitarra urlata o sussurrata a seconda dei casi ci trascinano in questa esperienza musicale quasi surreale e ci conducono rapidamente alla fine del concerto. Micah scende dal palco ed esce, ma il pubblico lo richiama a lungo a gran voce, fino a quando non si decide a tornare sul palco, sempre seguito dalla moglie che lo guarda da un banco laterale della chiesa.

Prima si fa pregare un po' e ci dice che non crede che lo vogliamo ascoltare ancora. Poi però inanella un'altra serie di canzoni, senza mai ascoltare le richieste del pubblico, come forse è giusto che sia per un personaggio come lui. Infine scende dal palco e ci regala un'ultima piccola gemma al pianoforte che è lì di fianco, dandoci le spalle.

Poi col suo bastone, come è arrivato va via. Questo ragazzone strambo, che non diresti che quella voce esca da lì, che non diresti che dietro quella salopette enorme c'è un cantautore di quella intensità, che non diresti che tenerezza e disperazione, cinismo e affetto possano convivere così incredibilmente nella stessa persona.

Voto: 3,5/5

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