domenica 12 novembre 2017

In blue. Scotty and the secret history of Hollywood. One of these days

Day #1 per me alla Festa del cinema di Roma per quest'anno. La mia scelta ogni anno di più in queste circostanze si orienta verso film non italiani e con attori e registi un po' meno noti, in pratica quel tipo di film che difficilmente vedremo uscire nelle nostre sale.

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In blue

Il primo film che vado a vedere - iniziando dalla più periferica delle sedi del Festival, il Cinema Europa - è In blue, del regista olandese Jaap van Heusden.

Il film racconta la storia di Lin (la bravissima Maria Kraakman), una hostess che vive in una casa bellissima, ma molto fredda, e la compagnia solo di un cane. Un giorno durante una sosta a Bucarest incontra in modo un po' rocambolesco Nicu (Bogdan Iancu), un quindicenne rumeno che vive nei sotterranei della città, ha una sorellina in un istituto, e sopravvive prostituendosi e rubando.

Tra questi due mondi che non hanno praticamente nulla in comune si crea un contatto: per Lin Nicu è il figlio che ha perso molti anni prima e che probabilmente ha messo in crisi il rapporto con il suo compagno; per Nicu Lin è una potenziale occasione per scappare via dalla sua situazione, ma anche una donna che le offre calore umano e un affetto la cui natura lui talvolta confonde o male interpreta.

Lin e Nicu sono ognuno per l'altro/a la proiezione di un vissuto e di un mondo interiore, che a ciascuno è in buona parte reciprocamente ignoto e tale rimarrà, per paura, per carattere, per difficoltà di comunicazione.

Il titolo del film In blue è un riferimento al colore della divisa di Lin, ma anche allo stato d'animo di entrambi i protagonisti, alla loro malinconia che ha origini diverse, forse anche livelli diversi, ma sicuramente la medesima intensità. Blue è anche un colore freddo, come appare Bucarest nel film (quasi sempre coperta di ghiaccio e neve), ma anche la casa di Lin e il mondo (indipendente e composto) dal quale proviene.

Un film forse non perfettamente riuscito, a tratti più vero del vero, a tratti poco credibile, ma nel complesso molto interessante.

3/5



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Scotty and the secret history of Hollywood

Il documentario di Matt Tyrnauer racconta attraverso una lunga intervista il personaggio di Scotty Bowers, ora novantunenne, che ha pubblicato un po' di anni fa un libro dal titolo Full service che ha destato molto scalpore.

Il libro racconta di come Scotty, tornato dalla seconda guerra mondiale, iniziò a lavorare in un distributore di benzina. Lì fu notato da un produttore di Hollywood e cominciò a frequentare sul piano sessuale diversi protagonisti della Hollywood del tempo. Successivamente radunò - sempre presso il distributore - un gruppo di amici (quasi tutti reduci come lui) a disposizione per i medesimi servigi. A quel tempo Hollywood era un ambiente caratterizzato da un lato da una grande libertà di costumi sessuali dall'altro da un'immagine esterna assolutamente impeccabile e allineata.

Scotty rappresentò dunque per molti attori e attrici, nonché altri personaggi famosi più o meno legati al mondo del cinema l'occasione di poter vivere la propria vita e le proprie fantasie sessuali potendo contare sulla sua assoluta discrezione. Alcuni nomi sono noti (si pensi a Cary Grant e Rock Hudson), altri meno (ad esempio, Spencer Tracy e Katherine Hepburn).

L'aspetto più sorprendente del film - oltre alla possibilità di togliere il velo all'immagine pubblica di molti questi personaggi - è comprendere la figura di Scotty stesso, che guardata dall'esterno si potrebbe leggere come quella di un adulto traumatizzato dagli abusi subiti da bambino e di uno sfruttatore della prostituzione. Paradossalmente però l'immagine che ne viene fuori è un'altra: un uomo che ha scelto fin da bambino la massima libertà sessuale e che ha offerto ad altri la possibilità di fare lo stesso; un uomo traumatizzato certamente (come emerge dal suo disturbo di accumulazione compulsiva) ma primariamente dall'esperienza della guerra.

Una figura naif e per certi versi quasi innocente, molto rispettata e amata dalla gente di Hollywood per la coerenza e l'onestà che ha usato come criteri di azione durante tutta la vita. Un vero benefattore e amico per alcuni.

Un bel documentario che il pubblico del festival romano ha decisamente apprezzato.

3,5/5



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One of these days

Sarà che ero arrivata con aspettative troppo alte, ma questo promettente film di Nadim Tabet non mi ha convinta. Sostenuto da una colonna sonora in cui la canzone che dà il titolo al film (ma non è quella dei Pink Floyd) la fa da padrona, il film racconta una giornata nella vita di un gruppo di giovani libanesi che vivono a Beirut. Mentre nel loro paese si susseguono attentati terroristici e si moltiplicano i checkpoint, Yasmina fugge dal centro di riabilitazione dove l'hanno mandata i suoi genitori e raggiunge i suoi amici: la sua migliore amica, che è ossessionata dal fatto che tutte le sue amiche non sono più vergini e lei sì, il fratello di quest'ultima, che soffre per una storia d'amore finita male, l'ex fidanzato di Yasmina, Rami, cantante di una band musicale locale, che nel frattempo ha una storia con Amira.

Le premesse per un film coinvolgente ci sarebbero tutte, e a tratti il film riesce ad essere quello che forse dovrebbe essere: divertente ed emotivamente intenso. Per la maggior parte del tempo però le vite di questi giovani procedono confuse e tutto sommato senza un senso e una direzione, e il rapporto tra il loro disorientamento e quello del loro paese resta superficiale. Gli adulti sono praticamente assenti - e forse volutamente - da questo film; quello che ne viene fuori è il ritratto di una generazione che non ha potuto sperimentare la vera leggerezza della giovinezza e che dunque si porta dietro come un macigno una malinconia e un'insoddisfazione profonde e apparentemente senza soluzione.

2,5/5

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